Salario minimo e struttura della retribuzione: uno sguardo comparato tra Italia ed Europa
Quando si parla di salario minimo, il dibattito si concentra spesso sull’opportunità di introdurre un importo fissato per legge che garantisca una soglia retributiva dignitosa per tutti i lavoratori. Tuttavia, il concetto di retribuzione è molto più articolato e variegato, soprattutto nel contesto italiano, dove entrano in gioco elementi indiretti e differiti come mensilità aggiuntive, indennità specifiche e il Trattamento di Fine Rapporto (TFR).
Nel nostro ordinamento, la retribuzione è determinata principalmente attraverso la contrattazione collettiva, che rappresenta una garanzia fondamentale per i lavoratori. Grazie all’articolo 51 del D.Lgs. n. 81/2015, solo i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative possono essere utilizzati come riferimento per definire i trattamenti economici. Questo consente di assicurare un elevato livello di tutela, non solo in termini di importo, ma anche di coerenza rispetto alla qualità e alla quantità del lavoro svolto.
Il confronto con altri Paesi dell’Unione Europea mostra scenari molto diversi. In Francia e Germania, ad esempio, è previsto un salario minimo legale, aggiornato periodicamente in base all’inflazione e al costo della vita. In Spagna, lo SMI (Salario Minimo Interprofessionale) è anch’esso fissato per legge, ma declinato su 14 mensilità, includendo quindi le mensilità aggiuntive direttamente nel valore annuale. In Romania il salario minimo legale risulta più contenuto, mentre in Svezia, così come in Italia, non esiste un salario minimo imposto dallo Stato: la retribuzione è interamente rimessa alla contrattazione collettiva.
Un altro aspetto importante da considerare riguarda la struttura della retribuzione. In Italia, la tredicesima mensilità è prevista per legge, mentre la quattordicesima – e talvolta ulteriori premi assimilabili a mensilità aggiuntive – possono essere introdotti dai contratti collettivi. Questo rende il trattamento economico complessivo più vantaggioso rispetto a quello garantito in molti altri Paesi. Anche il TFR rappresenta un elemento distintivo nel panorama europeo: si tratta di un’istituzione normativa presente nel nostro ordinamento, ma assente nei sistemi di Francia, Spagna e Svezia, dove possono essere previsti altri tipi di indennità in occasione della cessazione del rapporto, ma senza una regolamentazione universale e strutturata come in Italia.
La contrattazione collettiva italiana, quindi, non solo definisce minimi tabellari, ma può anche prevedere tutele avanzate, premi legati al welfare, orari ridotti a parità di retribuzione e indennità specifiche, adattandosi alle esigenze dei diversi settori produttivi. Un sistema complesso, ma efficace, che garantisce protezioni elevate e personalizzate.
In un contesto europeo dove i livelli di costo della vita e potere d'acquisto sono molto eterogenei, pensare a un salario minimo “standardizzato” rischia di appiattire le specificità settoriali e territoriali. L’esperienza italiana dimostra che una contrattazione collettiva rappresentativa, ben strutturata e dinamica può offrire soluzioni più efficaci, eque e flessibili per garantire condizioni di lavoro dignitose e sostenibili.
Se tutte le aziende rispettassero pienamente i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) maggiormente rappresentativi, probabilmente il problema del salario minimo in Italia si ridurrebbe notevolmente. I CCNL stabiliscono infatti le condizioni di lavoro, i salari e i diritti dei lavoratori, e se venissero applicati correttamente, garantirebbero a tutti i lavoratori salari più equi e dignitosi. Questo contribuirebbe a ridurre le differenze salariali e a creare un livello minimo di tutela per tutti, rendendo non necessaria l'istituzione di un salario minimo legale.
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